Testimonianze

Vivere il Perù

Siamo ad Arequipa, sulle prime pendici delle Ande peruviane; stiamo per intraprendere un lungo trasferimento notturno in treno verso Juliaca e Puno, due città sulle sponde del lago Titicaca, da cui continueremo il nostro viaggio verso la Bolivia ed in seguito verso Cuzco ed i siti archeologici Inca.
Ci attendiamo un viaggio faticoso perché, oltre a non aver trovato un volo come avremmo desiderato, non é disponibile neanche la "classe pullmann", con sedili reclinabili, e abbiamo quindi dovuto ripiegare sulla classe economica. Inoltre il viaggio si svolge tutto ad alta quota, con punte oltre i 4.000 metri ed arrivo sui 3.800 del lago. Ed anche la nostra resistenza fisica è stata messa a dura prova da un'escursione di due giorni, tutta oltre i 3.000 metri, con lunghe tappe su strade sterrate.
E' quindi umanamente comprensibile un certo sconforto alla visione dei decrepiti vagoni "ENAFER" che ci trasporteranno nella notte a passo di lumaca su per i valichi andini. Ma ancora non sappiamo cos' altro sta per succedere.
Alla stazione c'è da aspettare una mezz'ora, che utilizziamo facendo fotografie col flash (è buio già da un pezzo). Prendiamo posto e nel frattempo salgono i peruviani, con incredibili quantità di bagagli, che stivano nelle reticelle, in mezzo al corridoio, davanti alle entrate dei vagoni; una volta occupati tutti i posti si sdraiano a terra, davanti alle toilettes, sui sacchi di granaglie, coprendosi quanto più possono per il freddo che comincia a farsi sentire e che ci accompagnerà per tutto il viaggio.
E' un'umanità triste, facce rassegnate, gente abituata da secoli alle sofferenze, su cui la storia è trascorsa senza modificare sostanzialmente una predisposizione direi quasi genetica al sacrificio ed alle rinunce.
Vediamo le facce impenetrabili degli indios (in questa zona vivono i quechua che popolano la parte più ad ovest del lago, la regione di Cuzco ed in minoranza alcune zone della Bolivia), che ci ricordano i monoliti inca nei tratti duri del viso, gli zigomi marcati, il naso aquilino. E poi alcuni turisti, come noi un po' stanchi, che si guardano intorno incuriositi.
Si parte dopo alcuni rintocchi di campana, un suono ripetuto, prolungato, che lascia un'eco dolorosa nella notte. Dopo circa un'ora di viaggio fa davvero freddo, i vetri sono appannati, la campagna è ricoperta di neve. Ma dai finestrini si vede uno straordinario cielo stellato, le costellazioni sembrano a portata di mano, riconosco lo Scorpione con la rossa stella Antares, non mi stanco di guardarla.
Ma un po' per volta la spossatezza ha il sopravvento e mi assopisco con le mani strette sotto le ascelle per ripararle dal freddo.
Mi risveglio un attimo e mi accorgo che il treno è fermo. Da quanto tempo? Probabilmente non da molto, è stata proprio la cessazione di quel movimento e di quel rumore ripetuti e monotoni a svegliarmi. Passa... quanto? Un quarto d'ora, mezz' ora forse... Poi mi sveglio del tutto e comincio a chiedermi che cosa sarà successo.
Va bene, siamo in Perù, non si può pretendere una puntualità elvetica. Ma adesso si comincia ad esagerare. Fa un freddo tremendo. Dove saremo? E a che altitudine? Sento il respiro pesante dei compagni. Sembra che nessuno si sia svegliato.
Arriva una donna dall'altro vagone.
"Hay un doctor aquì ?"
Hanno bisogno. Cosa sarà successo? Vado? Sì, bisogna che vada. So anche quel tanto di spagnolo che serve in queste situazioni. E poi sono abituato alle chiamate notturne.
Quello a cui non sono abituato è il caso da affrontare (e da risolvere, si spera).
"Sì, sono un medico. Qual è il problema?"
"C'è è una donna a termine di gravidanza nell'altro vagone che ha dolori".
Santo cielo!
"Io non sono ostetrico, sono neurologo, non ho alcuna esperienza di questo problema. E poi non ho il materiale".
"E' un caso di emergenza".
"Va bene".
Mi accompagna nell'altro vagone un compagno del gruppo, che mi regge una torcia. C'è è una ragazza col pancione, chiaramente sofferente. Un'altra donna la sta aiutando.
"E' una primipara di vent' anni. Ha forti dolori".
La visito, è in buone condizioni. Pressione e polso regolari.
"Ha perso le acque?"
"No".
Meno male, penso. Vediamo se possiamo sorvegliarla e tenerla tranquilla fino al momento di farla scendere in qualche posto dove potranno assisterla meglio.
Però i dolori persistono e cominciano a presentarsi con regolarità. Eh no, penso, ha delle vere contrazioni, si sta dilatando. Ed ora come si fa? E questo maledetto treno che è sempre fermo!
Chiedo alle donne intorno. C'è è un'infermiera che può aiutarmi. Decidiamo di portarla nella classe pullmann che è riscaldata e dove almeno potrà stendersi su un sedile. Si comincia un'odissea tra gente sdraiata, ceste di verdura, sacchi di lana, con la poveretta che si destreggia quanto può per evitare di calpestare qualcuno mentre prosegue la sua sofferenza.
Arriviamo nel vagone della classe pullmann e facciamo molta fatica a trovare qualcuno che sia disposto a cederle il sedile.
Nel frattempo arrivano una donna anziana ed una più giovane. Quest'ultima è un'ostetrica. Grazie al cielo! Ha persino del materiale chirurgico. Scopro che lavora in una piccola infermeria non lontano da qui. Ma le lontananze in questo frangente sembrano dilatarsi ad anni-luce.
"Dobbiamo farla scendere alla stazione di Mata, dove c'è è la mia infermeria. La stazione prima non è attrezzata per un parto".
"Ce la facciamo? Mi hanno detto che non ha ancora perso le acque. Ma a me sembra che si stia dilatando".
"Si, è vero, ha già una dilatazione di 3-4 centimetri. Quando è salita sul treno aveva già perso le acque. Questa povera ragazza è completamente sola. Quella che la assiste è solo la sua vicina di posto".
"Il problema è il treno che non riparte".
"Sì, dovremo eventualmente attrezzarci per farla partorire qui. E' una primipara e necessiterebbe l'episiotomia (1). Ma non ho ago e filo. Anzi, dobbiamo procurarci del filo per il cordone ombelicale".
La visitiamo, sembra tutto regolare. Il battito cardiaco fetale è normale. Le contrazioni si succedono con maggiore frequenza.
"La dilatazione è di otto centimetri".
"Respira profondamente", suggeriamo continuamente alla ragazza.
"Il cordone non è prolassato?"
"No, e non è neanche attorto intorno al collo".
Mettiamo una coperta intorno al sedile, per assicurare un minimo di privacy, se se ne può parlare in un vagone affollato all'inverosimile che sta per trasformarsi in sala parto. Nel frattempo il treno riparte. Ma ormai non ce la facciamo più ad arrivare all'infermeria.
"Spingi! Spingi!" diciamo alla ragazza all'apice di ogni contrazione uterina. Non possiamo aiutarla, per la paura di provocare un'espulsione troppo rapida della testa fetale e conseguenti lacerazioni. Ma sembra che tutto stia procedendo senza complicazioni.
Le fasi finali del parto vanno benissimo e prendiamo tra le braccia il neonato, un maschio, di colore grigiastro, che non respira subito. Gli puliamo la bocca, lo mettiamo a testa in giù e finalmente il primo pianto, lacerante, liberatorio, accompagnato dagli applausi di tutto il vagone.
Tagliamo il cordone e cerchiamo di legare le due estremità. Ma il filo non tiene ed applichiamo le provvidenziali pinze chirurgiche dell'ostetrica. Lo visito, respira bene, il cuore batte regolarmente. E finalmente lo diamo in braccio alla mamma.
Siamo in attesa delle contrazioni per l'espulsione della placenta. E' ormai giorno fatto. Nel frattempo il treno arriva alla tanto attesa stazione di Mata. Prendiamo la ragazza su una coperta, io e tre peruviani, e la trasportiamo di peso nell'infermeria. C'è è un lettino ginecologico. Gli improvvisati barellieri stanno per posarla con la testa dalla parte delle staffe.
"Dall'altra parte" dico io.
Un rapido tocco sul capo della ragazza. "Ciao". "Ciao e grazie!"
Corro a rotta di collo verso il treno. Risalgo nella carrozza del parto. In quattro o cinque mi si affollano intorno. Una ragazza mi offre della Coca-Cola. Bevo e riesco a malapena a ringraziare.
E' un'emozione indicibile aver toccato con mano la sofferenza di questa gente, di cui tanto spesso, anche passando loro vicino, non riusciamo a renderci conto.
Che futuro aspetta questa ragazza, così sola da essere assistita da estranei in uno dei momenti più significativi della sua vita? Che cosa potrà offrire al suo bambino, oltre all'affetto? Che cosa avrei potuto fare se si fosse presentata la minima complicanza? Un parto cesareo con un coltello a serramanico?
Ma non ho il tempo di pensarci troppo. Ringrazio e mi avvio verso il mio vagone, anche i miei compagni vorranno sapere qualcosa. Ma nel percorso mi ferma una donna.
"E' lei il dottore?"
"Sì"
"Per favore, può visitare mio figlio che ha dolori alla pancia e nausea?"
Il ragazzo effettivamente sembra sofferente, respira affannosamente. La pressione è bassissima, intorno agli 80. l'addome è trattabile, non presenta segni di contrattura. Non ci sono sintomi che possano far pensare ad una malattia chirurgica, come ad esempio un'appendicite acuta. Gli tocco la fronte, non sembra abbia febbre. Non ha avuto diarrea. Viene da Lima, sono probabilmente i sintomi del "soroche", il mal di montagna.
"Vado a prendere un farmaco e ritorno".
Mi allontano verso il mio vagone ma vengo bloccato da un'altra donna. Mi chiede aiuto per sé, ha vampate di calore al volto e dolori al torace.
Mi impensierisco e le misuro la pressione. Ha una crisi ipertensiva, devo procurarmi degli altri farmaci. Mentre cammino mi fermano altri passeggeri. Ma se non ho i medicinali non posso fare nulla. Cerco di farglielo capire. Insistono. Dev' essere un'impresa eccezionale per loro farsi visitare da un medico nel momento in cui ne hanno bisogno.
Cerco comunque di svincolarmi e finalmente raggiungo il mio posto. I compagni del gruppo sono tutti svegli e mi chiedono com' è andata.
"E' un maschietto, sta bene. La ragazza è scesa poco fa, quando il treno si è fermato. Per fortuna hanno trovato un'ostetrica che aveva del materiale chirurgico. Io non avevo nemmeno i guanti sterili. Chi se lo aspettava? Ma ora mi stanno chiamando, c'è è tanta gente che sta male. Un ragazzo con disturbi da altitudine ed una donna anziana ipertesa. Avete qualche farmaco?"
Trovo un flacone del vecchio Micoren che può essere utile per qualcuno con la pressione bassa. Io in particolare ho portato del Diamox per il mal di montagna: facilita l'ossigenazione cerebrale, ma per la sua azione diuretica non può essere somministrato agli ipotesi. Una ragazza di un altro gruppo mi dà una scatola di Citroepatina granulare: potrà servire forse a quel ragazzo con la nausea. Una peruviana mi dà una compressa di Capoten 25 mg per la signora ipertesa. Altri hanno delle compresse masticabili di Coramina-Glucosio per il mal di montagna. Si spera che funzionino almeno quanto il "mate di coca", che abbiamo bevuto ad Arequipa. Mi riprende un senso di impotenza. Ma vado.
Altri mi fermano. C'è un ragazzo con forti vertigini e intensa stanchezza. Gli misuro la pressione, è molto bassa. Prendi queste gocce. Dò il Capoten alla signora ipertesa. Una ragazza con la nausea. E' il minimo, dopo tante ore di treno. Ed altri, altri ancora. Non si finisce più!
Cerco di avvicinarmi al mio vagone per riprendere posto. Mi butto un momento sul sedile.
Sta arrivando, siamo quasi in stazione. Scendiamo in mezzo ad una folla coloratissima. Attenzione ai portafogli, ci ammoniamo per l'ennesima volta. Ma sembra che le consuete cautele siano sufficienti.
Riprendiamo il nostro consueto ruolo di turisti; saliamo sul pulmino che ci condurrà a Puno, sul lago Titicaca. No, non turisti: viaggiatori. E' diverso. Stanotte il Perù un po' l'abbiamo vissuto.

Recapiti

Di seguito le informazioni per mettersi in contatto con il Dott. Marco Trucco:

Studio Medico - Corso Europa 42/9 - Loano (SV)

info@marcotrucco.it

330.488.439 e 391.1870234

Dottor Marco Trucco | C. Fisc.: TRCMRC57M30I480W | Privacy